Skip to main content

ninna Ho

Da tempo esiste in Italia una legge (Dpr 396/2000) che permette a qualsiasi donna di recarsi in ospedale per mettere al mondo un figlio in completo anonimato, senza nessun obbligo di riconoscere il neonato. Purtroppo, però, molte donne ne ignorano l’esistenza.

Per permettere la diffusione concreta della conoscenza delle leggi a favore delle donne in difficoltà, è necessario utilizzare tutti gli strumenti disponibili, primi fra tutti i mezzi di informazione – giornali, riviste, radio, televisioni, free press, web –; seguono le Associazioni impegnate su questo fronte, la scuola, gli amici.

Inoltre, si può attivare un intervento educativo rivolte alle madri nel tentativo di fornire loro informazioni sulla genitorialità, sulle cure e lo sviluppo del bambino. Si può agire anche all’interno di un supporto empatico o con terapie cognitivo-comportamentali indirizzate sia alle madri che alle coppie di genitori. 

Ancora ci sono terapie di gruppo pre e post-natali, che aiutano le madri a trovare rassicurazioni nella condivisione delle stesse difficoltà con altre donne, oltre che visite domiciliari, che nei casi di negligenza e di abuso hanno avuto in particolare un grande successo (Olds et al. 1997). Diversi autori hanno esteso questo approccio a tutto il campione di madri figlicide, mentre Overpeck e colleghi (1998) hanno proposto un cross-training per i professionisti della salute per permettergli di individuare la violenza domestica. Ancora molto c’è da fare in questo ambito, perché non bastano solo nuove ricerche che possano ulteriormente confermare i fattori che portano a considerare un caso ad alto rischio, ma è necessaria anche una adeguata formazione professionale per coloro che sono più a diretto contatto con le madri, dai pediatri ai medici di base, così che possano essere messi nella condizione di inviare casi allarmanti a servizi specializzati, in una prospettiva di intervento di rete.

Il programma “NINNA OH” è un valido mezzo a cui le mamme possono rivolgersi.

Una forma di espressione di violenza molto diffusa ma altrettanto poco attenzionata dalla letteratura è l’ infanticidio.

Pur nella sua brutalità, la storia dell’umanità ne è ricca di esempi. L’infanticidio o l’esposizione prolungata dei neonati al freddo (inteso come abbandono) erano metodi comunemente utilizzati ed accettati nella Roma e nella Grecia antica. Al pater familias era lasciato pieno diritto di decisione sulla vita o la morte di ogni figlio che nasceva. Le deformazioni, in particolare, erano considerate un peccato e quando un bambino nasceva sfortunato la sua vita era subito troncata

Non tutte le uccisioni di bambini sono infanticidi.

Per esser tale, infatti, innanzitutto il soggetto attivo deve essere la madre (è quindi un reato esclusivo) perché chiunque altro uccida un neonato incorre nel reato di omicidio doloso.

Il profilo della madre che commette figlicidio è stato più volte elaborato dalla letteratura. 

L’età media individuata nei studi va dai 25 anni ai 30. Una buona parte presenta un basso quoziente intellettivo, influenzato probabilmente anche dal livello di istruzione più basso. Per quanto riguarda lo stato coniugale la maggioranza di queste donne sono sposate o con una relazione al momento della morte del figlio, ma vivono in una situazione socioeconomica caratterizzata da difficoltà finanziarie. Nella loro infanzia è frequente trovare una storia di abuso, ma è stata rilevata un’alta prevalenza di violenza domestica anche al momento dell’omicidio. Queste madri presentano una percentuale decisamente maggiore di disturbi psichiatrici, sia nell’anamnesi personale che familiare.

 Sicuramente il figlicidio materno è un evento multifattoriale, cioè è determinato da diverse cause, che potremmo chiamare concause, perché un singolo fattore di rischio non comporta necessariamente un atto omicida verso il figlio: solo la presenza congiunta di diversi fattori rende possibile il suo verificarsi. Inoltre, non possiamo considerare i fattori indipendenti tra loro. Più probabilmente i diversi aspetti si intrecciano e si influenzano l’un l’altro, aumentando la complessità del fenomeno. Il figlicidio materno quindi è un fenomeno composito, caratterizzato da un gruppo di madri molto eterogenee tra loro.

La letteratura (Resnick, 1969) riporta diversi studi in cui si è cercato di fornire un quadro degli aspetti che fanno rientrare una madre in una condizione di rischio e che dovrebbe destare attenzione e allarme sia nella società che nei servizi di salute mentale. I fattori di rischio sono caratteristiche, condizioni, segnali e circostanze ambientali associate a un’elevata probabilità che si manifesti un determinato target.

Il maggior rischio per il figlicidio, secondo la letteratura, si ha durante il primo anno di vita del bambino, perciò diventa importante riconoscere i sintomi dei disturbi tipici del post-partum, come la depressione o la psicosi ma anche l’abuso di sostanze, meno tipico ma allo stesso modo molto pericoloso per la possibilità di slatentizzare un disturbo psichiatrico. Quindi diventa necessaria una preparazione anche rispetto ai fattori di rischio dei disturbi puerperali (Craig, 2004). Gli studi hanno dimostrato che l’aver presentato una depressione precedente al parto è un rischio per lo sviluppo di una depressione post-partum nel periodo del puerperio. Alcune ricerche hanno evidenziato la presenza o l’assenza di pregressi stati psicopatologici al parto e il ruolo del contesto familiare e sociale (Verkerk et al. 2005). Infatti, il funzionamento sociale, insieme alla gravità dei pregressi stati depressivi e al livello di accudimento ricevuto dai genitori durante l’infanzia, sono dei fattori altamente predittivi dell’evoluzione dei disturbi puerperali (King et al. 1997).

Osservatorio sulla violenza