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Violenza Sessuale

La violenza sulle donne, nelle sue fattispecie specifiche, può essere considerata come un’ aggressione volta a ledere la libertà e l’identità personale della vittima al fine di dimostrare potere e dominanza nei confronti di essa, ritenuta una persona in uno stato di inferiorità e che deve fare o subire azioni contro la propria volontà.

Gli studi criminologici più recenti distinguono la violenza in tipizzazioni che ne permettono sia in termini giuridici  che sociologici una maggiore categorizzazione e comprensione.

Si differenzia allora la violenza fisica da quella sessuale e questa da quella psicologica.
La prima è rappresentata da un passaggio all’atto di un impulso aggressivo eterodiretto mentre la violenza fisica si definisce con qualsiasi azione e comportamento che può provocare segni più o meno evidenti, dai lividi alle lesioni gravi, fino alla morte.
Come la violenza psicologica,  è spesso connessa ad una limitazione della libertà sul piano economico-lavorativo, cioè con ciò che direttamente o indirettamente concorre a rendere la donna dipendente, fino al punto di non avere mezzi sufficienti a soddisfare i bisogni di sussistenza proprio e/o dei figli.

La violenza sessuale è quella forma di attività sessuale imposta contro la propria volontà in cui la vittima perde la propria individualità e, per l’aggressore, diventa un oggetto complementare a se stesso che deve essere posseduto per mantenere l’illusione della propria onnipotenza e del proprio potere.
La  violenza sessuale risulta essere il reato in assoluto meno denunciato: secondo le stime delle ricerche svolte negli Stati Uniti, i casi di violenza sessuale  sarebbero solo una minima percentuale che oscilla, a seconda del metodo usato per rilevare i dati, dal 1% al 28% di quelle realmente subite dalle donne (Koss ed al. 1988;McGregor ed al 2000; Istat, 1997, 2004).

Inoltre, tra il 14 ed il 20% delle donne subisce, da adulta , una o più violenze sessuali gravi (Koss ed al. 1987) ma se si considera la frequenza delle violenze sessuali sull’intero arco di  vita arriviamo a cifre ben più ampie.
In Italia la prima grande indagine sulla sicurezza dei cittadini è stata condotta nel 1997 dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), rilevando che solo il 18% delle violenze  sessuali veniva denunciato. La maggior parte delle aggressioni si registravano nella propria abitazione o in quella di amici o conoscenti e la maggior parte degli stupratori risultavano essere amici, conoscenti, fidanzati, parenti o colleghi di lavoro.  
Del totale delle donne intervistate che hanno dichiarato di aver subito una violenza sessuale nell’arco della vita, l’82% non ha denunciato il fatto, tale percentuale scendeva al 4% nel caso in cui che l’autore della violenza fosse un conoscente.

L’ultima indagine ISTAT (2004) ha sostanzialmente confermato l’andamento di questi dati: la percentuale di violenze sessuali ad opera di estranei continua ad attestarsi al 18%, ma quella delle vittime che hanno denunciato l’accaduto scende al 7,4%. Il dato risulta particolarmente allarmante se si tiene conto che le donne definiscono la violenza subita come “grave” (84,7%) e “molto grave” (57,6%) ma nonostante ciò, quasi un terzo delle intervistate dichiara di non aver mai parlato a nessuno, nemmeno a livello di confidenza personale, della violenza sessuale subita.

L’aggressione sessuale può includere un’ampia gamma di comportamenti, che vanno dal tentativo di baciare, accarezzare e molestare, fino al tentativo di stupro e al vero proprio stupro. Lo stupro è  un evento in cui non solo manca il consenso della vittima ma implica l’uso della forza, o la minaccia dell’uso della forza:  un attacco totale all’ integrità, fisica, psicologica e sociale della vittima.

Le teorie e le riflessioni in ambito sociologico, psicologico e delle scienze umane e sociali giungono a considerare tale esperienza come correlate al contesto sociale di riferimento, ai valori della cultura ed all’apprendimento sociale dei diversi ruoli sessuali. Per molti ricercatori lo stupro è espressione di un’ineguaglianza tra uomini e donne, e finché questa sarà mantenuta relativamente al potere economico e politico, ogni interazione tra di loro sarà intrisa  di dinamiche di potere. La sessualità infatti riflette le attese sociali, i propri bisogni e la soggettiva relazione tra costrizioni e privilegi socialmente determinati: la forza, l’intidimidazione ed i ruoli di genere sono stabiliti dalle norme sociali ben prima che uno stupro si verifichi (O’Tolle e Schiffman, 1977).

Esisterebbe pertanto una continuità tra la violenza sessuale ed il comportamento maschile “normale” e socialmente incoraggiato, basato su privilegi acquisiti e mai ridiscussi, sull’esaltazione del dominio e della potenza sessuale anche nelle ricerche di Malamuth (1981).
Ed in Italia la realtà non è poi molto diversa. Basti pensare agli stupri avvenuti durante la seconda guerra mondiale in cui la donna non veniva considerata come esser umano ma solo merce per il divertimento dei soldati, usate come trofeo dai vincitori e rivalsa sui vinti. Tuttavia la consapevolezza sociale sta mutando ed il rapporto  dei crimini di guerra, “Rape is a war crime” (Grandits ed al, 1999) rende conto di un progetto dell’Unione Europea condotto con due governi (svedese e austriaco) e reso possibile grazie alla collaborazione con Associazioni e Centri anti-violenza.

Il tentativo di negare l’ esistenza della violenza sessuale è una costante nella nostra cultura. Prima degli anni settanta, quando la violenza sessuale in termini di definizione viene riformulata grazie all’influenza dei movimenti femministi che auspicavano ad un linguaggio privo di differenze di genere e al riconoscimento dello stupro come crimine violento e, non solo, come una forma di appagamento di un impulso sessuale, la donna con il matrimonio diventava una proprietà dell’uomo che pertanto non poteva essere incolpato di un crimine contro se stesso.
Negli anni ottanta, il concetto di stupro è stato nuovamente riformato, includendo la possibilità di violenza sessuale da parte del marito e vietando l’inclusione della storia personale della vittima nel corso del procedimento giudiziario (tutti i 50 Stati USA hanno riformulato il concetto di stupro).

Poco conosciuta ma frequente soprattutto in ambito carcerario, è la violenza sessuale perpetrata sugli uomini. Gli uomini non solo sono culturalmente meno abituati ad esternare le proprie emozioni ma, siccome i casi di denuncia sono quasi inesistenti, non hanno neanche la possibilità di identificarsi con le altre vittime.

Carattteristiche della violenza sessuale

La relazione fra la vittima di violenza sessuale e l’aggressore, è risultata essere uno dei fattori principali per definire (e differenziare) il contatto sessuale come stupro o come comportamento consensuale; ad es. Koss e collaboratori (1988) hanno messo in luce come le vittime di persone conosciute difficilmente etichettano la loro esperienza come stupro.

La violenza sessuale è più facilmente definita tale quando l’aggressore è uno estraneo; inoltre quando l’assalitore è uno sconosciuto la vittima ha maggiore probabilità di reagire fisicamente e ha quindi maggiori probabilità di riportare ferite fisiche, tutti fattori che incidono sulla possibilità di denuncia  successivamente (Ruback e Ivie, 1988).
Sul piano scientifico è stata la ricerca di Mary Koss e di Cheryl Oros (1982) che ha fatto emergere l’esistenza di quelli  definiti dalla letteratura “acquaitance rapes” e “date rapes”, termini che stanno ad indicare rispettivamente quelle violenze sessuali in cui lo stupratore è un conoscente della donna o che avvengono in occasione di un appuntamento al buio. La violenze sessuali di questo genere sono molto più numerose degli stupri da parte di estranei, anche se molto più difficilmente arrivano a conoscenza dell’opinione pubblica.

Le vittime dello stupro “da appuntamento” tendono ad essere “incolpate” per la violenza sessuale subita e tendono esse stesse a darsi la colpa di quanto accaduto più di quanto non facciano le donne violentate da estranei solo per il fatto di aver scelto liberamente di avvicinarsi agli uomini che poi le hanno violentate.
In molti casi, le stesse vittime mostrano resistenza ad etichettare la propria esperienza come stupro e si riferiscono ad essa come “sesso non voluto” anche se, dai loro racconti, emerge che avessero chiaramente espresso il loro rifiuto ad un rapporto sessuale, spesso opponendo anche qualche forma di resistenza fisica (Kahn ed al., 2003).

Uno sviluppo recente relativo allo stupro “da appuntamento” è il ricorso al tranquillante Roipnol. Questo farmaco, completamente inodore e insapore, può essere facilmente aggiunto a una bibita e, se ingerito, fa perdere i sensi e rende confuso il ricordo di quanto accade.  Nell’agosto del 1996, fu approvata una legge federale, negli Stati Uniti, che prevedeva la possibilità di aggiungere come aggravante  a una pena detentiva per stupro e per altri reati violenti nel caso in cui fosse stato utilizzato questo tipo di farmaco.

Modelli per comprendere il fenomeno

Esistono in letteratura diversi modelli che cercano di spiegare le motivazioni alla base del comportamento deviante dello stupratore e che prendono in riferimento talvolta una presunta patologia mentale dello stupratore, altre volte aspetti più emozionali dello stesso (odio e sadismo ad esempio) o più cognitivi (alcuni studi hanno dimostrato come gli autori di reati sessuali presentino mancanza di empatia, distorsioni cognitive e disregolazione emotiva).

Vickers e Kitcher (2003) sostengono che lo stupratore raggiunga livelli di eccitazione tali da non riuscire a gestire il rifiuto di una donna pertanto l’ipotesi è che vi sia una differente soglia di attivazione dei meccanismi inibitori.
Secondo un  modello psicoanalitico (Orlandini, 2002) quello dell’aggressore non è tanto un bisogno ed un proposito “sessuale”, quanto un fondamentale bisogno di dominanza e forza conseguito attraverso la deumanizzazione della vittima. La violenza sessuale sarebbe quindi piuttosto un atto pseudo-sessuale dovuto ad ostilità, collera e controllo.

Il bisogno, narcisistico e sado-masochistico, di esercitare la propria forza ed il proprio controllo su una vittima attraverso lo stupro, potrebbe derivare allora da sentimenti inconsci di impotenza e svalutazione, o da un profondo vuoto interno ed una profonda depressione.
A muovere lo stupratore sarebbero pertanto la pretesa di avvicinarsi ad un Sé grandioso che insieme alla mancanza di empatia nei confronti della vittima sono caratteristiche di un costrutto di personalità narcisistica di tipo overt.

Secondo il modello degli schemi socializzati sul ruolo dell’uomo e della donnasi ritiene che gli uomini sovrastimerebbero l’interesse delle donne per l’attività sessuale a tal punto da sentirsi nella posizione di “dover” testare i limiti della propria partner.
Bondurant e Donat (1999) sostengono che un progetto di prevenzione dovrebbe basarsi sulla necessità di una chiara comunicazione tra uomo e donna pertanto il problema nascerebbe, secondo gli autori da una mis-interpretazione del messaggio da parte degli uomini.

Tuttavia, alla base di tutte le ricerche nazionali e internazionali e dei modelli di lettura del fenomeno vi è il riconoscimento del fatto che la violenza sia un problema mondiale privo di differenze religiose, culturali, razziali e di estrazione sociale.
I casi di femminicidio e di violenza sessuale oggi si moltiplicano e rendono necessaria una nuova consapevolezza del fenomeno a partire da una più forte cultura antiviolenza basata su informazione, prevenzione e trattamento del fenomeno.

Una cultura che passi attraverso  la riscoperta dell’importanza per i diritti umani in primo luogo, che viaggi lungo il cambiamento di prospettiva a livello sociale dei ruoli sociali di genere che, partito dai movimenti femministi degli anni ’70, è giunto ad oggi; cambiamento che sappia distruggere gli stereotipi della disparità di genere e fornisca visioni più realistiche ed affettive del genere maschile, lontano dalla visione tipica di una società patriarcale.
E’ necessario generare quindi una maggiore responsabilità collettiva che chiami in causa tutti e che faccia proprio un linguaggio rispettoso delle identità e delle differenze di genere.

La violenza sessuale secondo la legislazione italiana

In Italia, dal 1966 la violenza sessuale non si configura più come un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, bensì fra i delitti contro la persona, in particolare nel titolo dove sono disciplinati i delitti contro la libertà personale.
Con la legge n. 66/96, il nuovo reato di violenza sessuale ingloba fattispecie prima distinte (violenza carnale, congiunzione carnale commessa con abuso delle qualità di pubblico ufficiale, atti di libidine violenta).

Diversamente dalla normativa previgente, il reato di violenza sessuale diventa una violazione del diritto della libera espressione della propria sessualità, indipendentemente dalle modalità con cui la condotta criminale si è manifestata. Il codice Rocco prevedeva, infatti, la distinzione tra violenza carnale e atti di libidine violenta: nella violenza carnale rientrava ogni fatto per il quale l’organo genitale del soggetto attivo o del soggetto passivo, era introdotto parzialmente o totalmente nel corpo dell’altro, gli atti di libidine consistevano in quegli atti che, pur diversi dalla penetrazione, si concretizzavano in ogni forma di contatto corporeo causante “manifestazione di ebbrezza sessuale”. Con la nuova legge del 1996, ogni atto sessuale, se imposto ad un soggetto dissenziente, comprime la libertà personale di quest’ultimo e comporta reato unico di violenza sessuale.

Oggi è invece fondamentale la “quantità” di violenza, intendendo in particolare quella  esercitata sul corpo di una persona non consenziente.
La normativa non spiega bene cosa si debba intendere per “atto sessuale”, generalmente è considerato atto sessuale il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona, con una zona genitale, anale od orale del partner. Altrimenti l’atto viene definito libidinoso, ma non sessuale (Cappai, 1997).

Leonardo Nepi in “Violenza sessuale e soggettività sessuata”, affronta il tema della violenza sessuale mettendolo in relazione con quello dell’emancipazione femminile e della violenza maschile. Lo stupro rappresenterebbe quindi un vero e proprio strumento di controllo sociale per le donne di tutto il mondo, le quali, spesso tendono a limitarsi per paura di subirlo.
In alcune testimonianze raccolte dall’autore,  gli aggressori paragonano l’azione violenta a un episodio che per loro ha rappresentato qualcosa di positivo, come nel caso di aggressori per i quali l’atto aggressivo ha significato una ripicca nei confronti della vittima in generale o di una in particolare.
Oppure lo stupro diventa un valore aggiunto ad un’altra attività criminosa: un ladro si introduce in una casa per rubare e, trovando una donna sola, approfitta della “fortunata” coincidenza. In altre interviste inerenti invece agli abusi sessuali di gruppo, le violenze sessuali sono state paragonate a delle vere e proprie avventure da cui lo spirito cameratesco ne era uscito rafforzato.

Nonostante la preoccupante incidenza con la quale si consumano le violenze sessuali oggi , solitamente questo crimine resta impunito.
I resoconti dei processi, in particolar modo quelli italiani, sono spesso spaventosi: si processa la donna cercando di provare la sua falsità invece di concentrarsi sul dimostrare la colpevolezza dell’uomo; la vita sessuale e sentimentale di chi denuncia viene sbandierata e presa a testimonianza della sua inattendibilità e, a volte, si arriva addirittura ad insinuare il più vile e banale dei luoghi comuni “se l’è andata a cercare quindi in fondo lo desiderava”.
Questo sistema, spiega e giustifica il motivo per il quale le donne siano riluttanti alla denuncia.

In altri Stati tuttavia, non è così. Infatti, durante i processi, negli USA, in Australia ed in Finlandia vi è il Victim Impact Statement. Si tratta di una dichiarazione in forma scritta o orale che permette alle sopravvissute o alle loro famiglie in caso del loro decesso, di raccontare durante il processo gli abusi dal proprio punto di vista e, all’interno di alcuni ordinamenti giuridici, si allegano referti medici e perizie psichiatriche che dimostrino i danni arrecati alla vittima.
Sono in molte a sostenere che la possibilità di fare questa dichiarazione davanti al reo e ad un Giudice provochi un gran senso di soddisfazione e che, di conseguenza, aiuti nel processo di guarigione. Questa metodologia porta le sopravvissute, a sentirsi difese e non colpevolizzate, ciò le rende anche meno riluttanti alla denuncia.

BIBLIOGRAFIA

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am affermò: “Non si può comprendere la psicologia dell’omicida se non si comprende la sociologia della vittima. Ciò di cui abbiamo bisogno è una scienza della vittimologia.” La prima definizione di “vittima” risale al XIV secolo ed era associata ad un contesto religioso di consacrazione alla divinità di qualsiasi essere vivente (animale o uomo).

La definizione di vittima si è poi estesa includendo anche chi perde la vita in una sciagura o calamità, oppure anche chi, senza sua colpa, subisce un danno ad opera dei suoi simili o in seguito a malaugurate circostanze, e ancora, sia pure inconsapevolmente, ad opera di se stesso o del proprio carattere o temperamento. Nel linguaggio giuridico il termine vittima non viene usato in modo uniforme e appare alternativamente con vari termini come “parte lesa”, “persona offesa”, ecc. Anche le situazioni cui esso è riferito sono numerose, potendosi intendere per vittima tanto il soggetto passivo del reato, cioè il titolare dell’interesse offeso, quanto l’oggetto materiale del reato, che non sempre coincide con il primo. Inoltre vittima di un reato può essere, da un punto di vista giuridico, sia una persona fisica che lo stato. I soggetti più vulnerabili sono i bambini, le donne, gli anziani, le minoranze e le vittime collettive. È necessario inoltre considerare che esiste una differenza tra le tipologie di vittimizzazione che quindi viene suddivisa in tre categorie:

1. La vittimizzazione primaria: è il complesso delle conseguenze di natura fisica, psicologica, sociale ed economica derivanti dal reato stesso, ossia una relazione avuta con l’autore del fatto
2. La vittimizzazione secondaria: è una condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio psicologico e sociale vissuto dalla vittima in relazione ad un atteggiamento di insufficiente attenzione da parte delle agenzie di controllo.
3. La vittimizzazione terziaria: si verifica quando l’autore rimane ignoto oppure viene assolto.

In generale si può parlare di vittimizzazione nell’ abuso fisico e/o sessuale, nel maltrattamento emotivo, psicologico, nell’abuso economico e sociale; quando ci si trova coinvolti in insulti, minacce verbali, intimidazioni, denigrazioni, svalutazioni, che di solito il soggetto aggressore esprime nei confronti del proprio partner, nell’ambito di una relazione di coppia conflittuale. Il maltrattamento implica inoltre che la vittima, oltre ad essere costretta a comportarsi contro la propria volontà, si trovi in uno stato di inferiorità da un punto di vista soggettivo o oggettivo. La capacità di entrare in relazione con l’altro presuppone il riconoscimento e l’accettazione degli interessi personali in uno scambio di reciprocità. Per l’aggressore, al contrario, il partner è privo d’ individualità, è oggetto complementare a se stesso che deve essere “posseduto” per sostenere e mantenere il senso di onnipotenza narcisistica. La maggior parte delle donne che subiscono violenza e maltrattamenti in ambito domestico e che permangono a lungo, talvolta per sempre, in questa situazione, si percepiscono inferiori al suo aggressore, intellettivamente (come nel caso dei deficit mentali), oppure soggettivamente.

Fatta eccezione per le differenze oggettive e misurabili con scale di valutazione, il senso d’inferiorità tra adulti corrisponde ad una percezione distorta dell’Io e della propria immagine corporea.

 

Osservatorio sulla violenza