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La violenza psicologica sulle donne

Maltrattamento e vittimologia
Per maltrattamento psicologico si intende quella serie di comportamenti che mira a svalutare una persona ponendola in una condizione di subordinazione e danneggiandone il benessere psicologico ed emotivo.

La violenza psicologica non riporta effetti fisici evidenti, come troviamo invece in quella fisica o in quella sessuale, ma i suoi effetti sono più difficili da riconoscere, sia per la vittima stessa che per un osservatore esterno.
E talvolta, se questi comportamenti sono mossi nei confronti di una donna, purtroppo vengono ancora culturalmente accettati.

La vittima di violenza è di solito considerata dall’aggressore come una persona priva di valori, un “mero oggetto” su cui investire per proprie insoddisfazioni personali portandola ad accogliere questi pensieri ed a convincersi della posizione sociale attribuitagli dal medesimo aggressore.

Secondo Marie-France Hirigoyen (1998)[1] il rapporto molesto attraversa due fasi: la seduzione perversa, e la violenza palese. Durante la fase di seduzione la vittima viene destabilizzata fino a perdere la fiducia in se stessa. L’aggressore la attrae inviandole una buona immagine di sé e guadagnandosene così l’ammirazione;  successivamente le rimanda un’immagine positiva di se stessa sfruttando i suoi istinti protettivi: le fa credere di essere libera ma, paradossalmente, lentamente la priva della propria libertà e del proprio senso critico. Tutto questo per limitare la sua capacità di difesa, inducendola ad obbedire e soccombere al suo potere, mettendo in atto un vero e proprio controllo mentale.

La violenza psicologica è più difficile da riconoscere ma l’isolamento che l’aggressore ritaglia intorno alla vittima e la dispercezione di sé, ovvero quando la vittima non è più in grado di riconoscere gli abusi come tali né di ricordare il suo valore come essere umano, ne sono fattori distintivi. E nonostante negli ultimi dieci anni in Italia la violenza fisica sessuale o psicologica sia diminuita, rimane radicato il problema che solo l’11,8% delle vittime denuncia gli abusi subiti. La forma di isolamento che viene creata attraverso questi comportamenti e la responsabilità che la vittima sentirà di avere verso l’aggressore determinano un fattore chiave per  mantenere il controllo sulla vittima, facendo diventare così la vittima completamente dipendente dall’aggressore che diventa l’unica fonte di soddisfazione e di bisogno fondamentale.

Tra i comportamenti più comuni adottati dagli aggressori nei confronti delle donne vittime di violenza psicologica, troviamo la svalorizzazione di sé attraverso il sarcasmo, la derisione anche in pubblico e continue critiche e offese, alle sue idee, alle persone a cui è legato e alle cose che fa.
La vittima viene continuamente svalutata fino ad indurla a credere di non valere nulla, viene trattata come un oggetto negandone autonomia e personalità.
Un altro modo per paralizzare e negare la vittima è quella dell’utilizzo del paradosso.

Una comunicazione paradossale è costituita da un messaggio verbale seguito da uno non verbale ed opposto, quest’ultimo verrà notato dalla vittima ma negato dall’aggressore così che la prima si paralizzi a causa della mancanza di un modo “giusto” di agire o di esprimersi, perché sarebbe in ogni caso sbagliato.
La vittima in questo caso tende ad avere delle reazioni e ad innervosirsi ma, poiché viene negata la fondatezza delle sue percezioni, viene messa in dubbio la sua capacità di giudizio e lei stessa tende a ridere di sè, a sminuirsi e a sentirsi confusa su chi sia l’aggressore e chi la vittima, arrivando lei stessa a sentirsi l’aggressore e quindi in colpa.

L’aggressione è continua, ogni ingiuria fa eco a quelle precedenti ma la paura di possibili aggressioni è quello che frena la vittima dall’agire pienamente.
La violenza perversa viene scatenata quando la vittima si oppone al condizionamento.

Quando quest’ultima si separa dall’aggressore quest’ultimo può molestarla con un comportamento persecutorio.  L’aggressore in alcuni casi può coinvolgere anche i figli rappresentandosi ai loro occhi come la vittima e portandoli a schierarsi dalla sua parte contro l’altro genitore, rendendolo in questo modo ancora più solo.

Fa parte del maltrattamento psicologico anche il maltrattamento economico che mira a rendere la vittima completamente dipendente da questo punto di vista. Il lavoro inoltre è un ottimo modo di interagire con l’esterno e crearsi un indipendenza oltre che economica anche affettiva e personale.

VITTIMOLOGIA

La vittimologia è “una disciplina che ha come oggetto lo studio della vittima di un crimine, della sua personalità, delle sue caratteristiche biologiche, morali, sociali e culturali, della sua relazione con il criminale e del ruolo che ha assunto nella genesi del crimine” (Gulotta, 1976)[2].
Questa disciplina si occupa di studiare la vittima della violenza da tre punti di vista:

  1. punto di vista diagnostico;
  2. punto di vista preventivo;
  3. punto di vista riparativo.

La matrice della violenza sulle donne può essere rintracciata all’interno della cultura maschile dominante. Lo dimostra il fatto che nei centri antiviolenza si rivolgono donne italiane e straniere di tutte le età e di tutte le classi sociali. Nel 2012 sono state accolte 1.700 donne, il 45% delle quali immigrate. Gli autori della violenza – per il 78% maltrattamenti – sono per l’80% mariti o compagni, il 18% altri parenti o conoscenti e appena il 2% sconosciuti. Nello stesso anno abbiamo ospitato 70 donne e 62 bambini.

Ma cosa accomuna le donne vittime di violenza?

Una delle caratteristiche di queste donne è certamente la solitudine in cui sono immerse: l’isolamento sociale è uno dei passaggi chiave di quella “spirale della violenza” in cui si trovano. Ad essa si aggiunge una forte emozione che è la paura che seppur comune a tutti gli esseri umani, la reazione che scatena può essere soggettivamente molto diversa a seconda delle caratteristiche personali (capacità di gestione dello stress, capacità di problem solving, autostima, autoefficacia) e delle dinamiche esterne in cui ci si trova (ambiente, contesto lavorativo, impossibilità di muoversi ecc.).

In particolare gioca un ruolo importante sul rischio di violenza l’autostima che è la misura di quanto si ritiene di valere. Una buona autostima e la voglia di preservarla possono essere motivazioni sufficienti a ridurre il rischio di subire un’aggressione o aumenta la possibilità di richiesta di aiuto. Entra infatti in gioco il sense of agency, cioè quella capacità dell’individuo di sentirsi e mostrarsi efficace e competente in un determinato contesto. Per cui, tanto più “riteniamo di valere” e “pensiamo di farcela” quanto più sarà probabile che la paura di un’aggressione non diventi panico o arrivi a paralizzarci.

Questa variabilità di elementi propri e non che accomunano le vittime di violenza, determinano la possibilità di attivare sistemi protettivi/difensivi quali di “attacco/fuga” o di  “freezing”. Questi due diversi tipi di reazione si hanno in base a come si percepisce, individualmente, la situazione, cioè da come percepiamo noi in base all’altro.

Il freezing è una strategia di adattamento presente anche negli animali che coinvolge l’attivazione del Sistema Nervoso Parasimpatico. Quando abbiamo la percezione di un pericolo eccessivamente minaccioso, il sistema di freezing si attiva, bloccandoci. Si ha la sensazione che quel che accade non sia reale o addirittura di depersonalizzazione, caratteristiche cioè dissociative che permettono di tollerare il dolore, fisico e psichico.

Spesso la famiglia e la coppia presentano delle caratteristiche che possono rendere più facile il maltrattamento di qualsiasi forma esso sia. Il maggior coinvolgimento emotivo, l’interdipendenza affettiva e materiale che lega i vari membri e la maggior conoscenza delle rispettive biografie, li rende anche più vulnerabili e fragili nei confronti di un eventuale maltrattamento” (Gulotta, 1984)[3].

Purtroppo interrompere il rapporto con l’aggressore non è una soluzione risolutiva poiché essa dipende dal livello di violenza e di perversione vissuto nella coppia. Talvolta basta uno sguardo che accompagna e giudica in ogni minimo gesto quotidiano a far sentire di non essere mai come si dovrebbe essere. Addirittura, “quello sguardo”, può essere proiettato su se stessi anche se “lui” non è presente in quel momento e diventa una gabbia anche quando non esistono sbarre che possono limitare la propria libertà.

MODALITA’ DI RISPOSTA ALLA VIOLENZA SULLE DONNE

Alcuni studi hanno esaminato i comportamenti difensivi delle vittime di violenza sessuale, le strategie da mettere in atto per evitare lo stupro e i comportamenti delle vittime che sono segno di vulnerabilità alla violenza.

L’analisi delle diverse strategie di reazione tratte dalla letteratura, unite all’esperienza clinica degli studiosi con autori di stupro che hanno confessato di aver commesso il reato e con le vittime di stupro, hanno permesso di definire una tipologia tipica di risposta alla violenza/aggressione che, come suddetto, va dalla fuga al freezing. Tra le due strategie opposte attivate dalla vittima automaticamente a seconda delle caratteristiche proprie personologiche e da quelle relative al contesto in cui si verifica la violenza/aggressione sono presenti risposte diverse:ì

  1. resistenza oppositiva verbale e quella fisica;
  2. risposte non confrontative verbali e fisiche.

La resistenza oppositiva verbale (Verbally confrontative resistence) consiste nello sfogare la propria collera urlando al fine di attirare l’attenzione su di sé e di dare, all’inizio dell’aggressione, il messaggio che la vittima non vuole essere sottomessa al suo aggressore.

La resistenza oppositiva fisica (Physically confrontative resistence) consiste in reazioni dettate da fattori situazionali (presenza di un’arma, probabilità di essere aiutati, dimensioni fisiche e forza dell’aggressore, grado di violenza percepito dell’aggressione) e varia da risposte moderate (divincolarsi, dibattersi), a risposte anche molto violente (colpire molto fortemente parti vulnerabili dell’aggressore quali, volto, gola, genitali con intenzioni mortali).

In letteratura si sottolinea che tale reazione è spesso associata ad una risposta più violenta da parte dell’aggressore.

Le risposte verbali non confrontative (Nonconfrontative verbal responses) hanno l’intento di dissuadere l’aggressore, suscitare empatia (intrattenendo la sua attenzione conversando con lui), negoziare al fine di prendere tempo ed escogitare la strategia giusta per scappare. Anche se il fatto di discutere con l’aggressore può essere uno strumento utile per ridurre il grado di violenza dell’aggressione, tuttavia non è efficace nel farla cessare completamente.

Purtroppo durante l’eccitazione di un’aggressione sessuale la maggior parte degli stupratori non si interessa affatto dei bisogni e dello stato fisico della sua vittima. La via più sicura per coinvolgere l’aggressore in un dialogo è quello di appellarsi alla sua umanità dimostrandosi estremamente sinceri e concentrandosi sulla situazione immediata.

La resistenza fisica non confrontativa (Nonconfrontative physical resistence) infine è una tecnica di resistenza che si appella a comportamenti simulati o reali, spontanei o incontrollabili. Le reazioni simulate possono includere ad esempio svenimento, mutismo, epilessia o attacchi apoplettici. Quelle involontarie e reali includono pianto, nausea e perdita del controllo sfinterico. Queste reazioni possono offrire un’opportunità alla vittima, ma essendo fortemente idiosincratiche non sono attendibili.

Come citato precedentemente, ogni individuo, in questo particolare caso ogni donna, ha reazioni diverse oltre per la differenza di situazioni esterne, anche e soprattutto in base alle sue caratteristiche personali. Secondo una ricerca fatta dalla psicologa Alessandra Bramante[4] sulle differenti reazioni delle donne coinvolte nello studio, vittime di aggressioni o di violenze carnali compiute dallo stesso aggressore dal 1973 al 1997, munito di arma e in ambienti simili, si evince che: la donna meno intimorita dall’aggressore e dall’arma con cui è minacciata, reagisce e di conseguenza scappa o cerca in qualche modo di intimorire il suo aggressore o di chiedere aiuto.

Possono essere quindi utili al fine di preservare la propria incolumità fisica e psicologica le seguenti tecniche:

  1. Cercare di stabilire un rapporto verbale con l’aggressore;
  2. Attivare immediatamente l’offensiva ed attaccare l’aggressore con aggressività fisica moderata (calci, pugni);

Calmare la rabbia dell’aggressore coinvolgendolo in una conversazione e rendendosi credibili ai suoi occhi; quindi allontanare da lui la fantasia secondo la quale sia proprio lei la persona a cui vuole fare del male.

[1] Hirigoyen M.F. (2015), Molestie morali, Ed. Einaudi-Bologna,

[2] Gulotta G. (1976). La vittima. Ed. Giuffrè-Milano

[3] Gulotta G. (1984). Famiglia e violenza. Aspetti psicosociali. Ed. Giuffrè-Milano

[4] Bramante A. Le Vittime Di Aggressione Sessuale: Differenze Comportamentali. Torino

Osservatorio sulla violenza